In data 15/06/2020 è stata pubblicata sulla rivista Clinical Cancer Research la seguente analisi che, a partire dai principali dati di letteratura disponibili, si propone come guida per tutti i medici che utilizzano farmaci inibitori dei checkpoint immunitari (ICIs) in campo oncologico in questo momento storico tragicamente segnato dall’infezione COVID-19.
Il virus SARS-CoV-2, agente responsabile del COVID-19, fa parte della famiglia dei coronavirus. Si tratta di un virus a RNA a singola catena, come il virus responsabile della SARS e della MERS. In tutte queste condizioni è stata osservata l’apoptosi dei linfociti T e la deplezione selettiva delle cellule T CD4+. Al contempo, è stato descritto che, nelle prime fasi dell’infezione da SARS-CoV-2, le cellule T circolanti esprimono molecole di superficie compatibili con la loro attivazione, e aumentano l’espressione del PD-1. Questo aumento dell’espressione del PD-1 potrebbe rappresentare da un lato un marker di esaurimento funzionale, ma dall’altro una semplice risposta iniziale all’infezione virale.
Relativamente ai farmaci immunoterapici disponibili, gli anti CTLA-4 inducono l’espansione del comparto CD4+ e CD8+ mentre gli anti PD-1 / PD-L1 inducono la ripresa funzionale delle cellule T esauste. I meccanismi di interazione tra ICIs e COVID-19 potrebbero essere sintetizzati come segue:
- Gli ICIs potrebbero migliorare le fasi iniziali dell’infezione contribuendo all’eliminazione del virus attraverso la riattivazione di cellule PD-1 positive specificamente dirette contro antigeni virali.
- Gli ICIs potrebbero alterare l’equilibrio immunologico favorendo l’infiammazione e aggravando il quadro di infezione conclamata. Nella fase tardiva dell’infezione da SARS-CoV-2 infatti, sono stati identificati alti livelli di IL6 e l’immunoterapia può essere associata a una tossicità mediata da citochine.
Al contempo, è necessario considerare che gli ICIs sono stati utilizzati nei pazienti con HIV, HCV (entrambi virus a RNA) e HBV e non hanno portato a un peggioramento dell’infezione né a una riattivazione del virus, con una tossicità ed efficacia simili rispetto a quelle osservate nei pazienti non infetti.
Con queste osservazioni a disposizione, sembra emergere una modesta possibile interferenza tra ICIs e corso dell’infezione da SARS-CoV-2. Tuttavia, in assenza di robusti dati clinici e di laboratorio, deve essere posta grande cautela nel traslare queste considerazioni alla pratica clinica di tutti i giorni.
Alla luce di quanto detto, gli autori consigliano:
- Considerare la terapia target, quando possibile;
- Quando l’immunoterapia rappresenta la migliore scelta terapeutica, non sembra ragionevole negarla al paziente oncologico né interromperla per paura dell’infezione da SARS-CoV-2;
- Effettuare uno stretto monitoraggio dei pazienti in corso di ICIs;
- Discutere col paziente circa i rischi e benefici della terapia con ICIs, con particolare riferimento alla scelta tra monoterapia e terapia di combinazione, specialmente alla luce della necessità di trattamenti immunosoppressivi in risposta agli eventi avversi;
- Selezionare i pazienti, con particolare riferimento agli anziani o ai pazienti candidati a terapie adiuvanti;
- Effettuare, quando possibile, lo screening per l’infezione da SARS-CoV-2.
Gli spunti di ricerca che vengono proposti sono molteplici, tra cui: - Collaborare al fine di raccogliere il più alto numero possibile di dati riguardanti pazienti positivi per l’infezione e al contempo trattati con ICIs;
- Delineare le interazioni tra ICIs e COVID-19, specie nella fase iniziale.